LES RENCONTRES EN ROUJE
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Portraits de femmes di Jeanne Damas

Buongiorno, mi chiamo Sarah, sono una scrittrice e la fondatrice dell'associazione "125 et après ?" che si batte contro la violenza sulle donne. Ho anche creato questo test che serve a capire se quello che stai vivendo in casa sia una situazione di potenziale pericolo. Fatti forza, non sei sola.

Intervista con Sarah di Jeanne Damas

La presidente lo ha sperimentato durante tutta l'estate. Ha capito la portata di questo strumento e mi ha chiesto di presentarlo agli operatori sanitari durante l'evento Restart. Ho notato che i medici erano molto colpiti dal test, quindi ho deciso di inviarlo al loro ordine. La vicepresidente dell'ordine, che è anche presidente del CNVIF (Comitato Nazionale Francese contro la Violenza Domestica), mi ha ribadito il valore di questo strumento e mi ha garantito il suo sostegno. Oggi stiamo ultimando il kit di comunicazione, con dei ritratti di donne ad opera di Carole Rocher. 10 profili anonimi di persone che hanno subito violenza, ma che, soprattutto, ne sono uscite. La serie è piena di speranza e si intitola "la vie sera belle" (la vita sarà bella). Abbiamo anche creato un podcast con Mamouz sui preconcetti relativi alla violenza. 5 episodi, 5 temi, uno per ogni preconcetto! Questi contenuti saranno amplificati dai marchi con cui collaboriamo.

JD - Sì, il tuo test è importante proprio per questo: sfata i preconcetti. Una mia conoscenza lo ha fatto dopo essere uscita da una relazione tossica: prima non avrebbe considerato se stessa come vittima di violenza, nonostante la situazione avesse tutte le carte in regola per esserlo.

Ciò che è davvero importante tenere a mente è che non si resta vittime per tutta la vita. A un certo punto possiamo esserlo state davvero, ma superare la cosa è possibile. Il test è stato elaborato insieme a Ghada, ai medici, agli avvocati e all'UNFF (Unione Nazionale delle Famiglie vittime di Femminicidio). Mi sono resa conto che sporgere denuncia era un vero e proprio calvario. Sporgere denuncia richiede in media 3 ore e mezzo.

JD - Sì, ricordo la testimonianza di una vittima francese di stupro in Australia che si rese conto di quanto la polizia fosse addestrata a gestire questo tipo di problematiche.

Quando tengo corsi di formazione alle forze dell'ordine, dico sempre: "Mettetevi per cinque minuti nei panni di questa donna, che da 6 mesi si chiede come farà ad arrivare fin qui". A volte si porta dietro i figli, e le viene chiesto nome, cognome e indirizzo, senza alcun riguardo: è umiliante. A chi affidi i tuoi figli dopo aver aspettato 2 ore all'accoglienza? Sto cercando di sviluppare un progetto pilota con il Prefetto della Val d'Oise, chiamato "Les chambres à soi" (Una stanza per sé). In tutte le stazioni delle forze dell'ordine ci sarà uno spazio di 10-12 m² per le famiglie vittime di violenza. All'interno vorrei che ci fosse il necessario per cambiarsi, rinfrescarsi, cambiare i bimbi, dei giocattoli, un angolo per dormire e un telefono. Anche in questo caso, diversi marchi partner contribuiranno a rendere il luogo più accogliente. Non spetta alle forze dell'ordine farlo, non hanno né il tempo né le risorse per occuparsene. Ma la società civile può migliorare queste situazioni. Stiamo iniziando a testarlo nelle aree rurali.

JD - Mi sembra che tu stia cercando di trovare delle soluzioni davvero concrete. Se ne può parlare, ricordare i numeri ma, a parte questo, cosa viene fatto concretamente?

Sì! Ci sono cose semplici che si possono fare. Ecco un esempio personale: quando sono scappata nel cuore della notte, sono andata a casa dei miei genitori nel 19° arrondissement. La stazione di polizia si trova a 5 minuti a piedi da casa loro. Dopo la denuncia ero così sconvolta ed esausta che non riuscivo nemmeno a fare quel breve tragitto, così mio padre è dovuto venire a prendermi in macchina. Ma se i miei genitori non avessero abitato lì vicino, come avrei fatto? La Maison des Femmes impiega in media 24 ore per trovare un alloggio d'emergenza.
L'altro giorno, una mia amica ha assistito a una scena di violenza per strada: stavano picchiando una donna. Ha sporto denuncia, e poi? A chi rivolgersi? Dove andare? La mia amica ha pagato una stanza d'albergo alla sconosciuta. Il progetto "Les chambres à soi" può evitare questo genere di situazioni. Per limitare gli spostamenti, prendersi il tempo necessario per riprendersi, avvertire a parenti e amici…

JD - Il tuo impegno è ancora più pragmatico perché deriva dalla tua storia.

Sono fuggita con il mio bimbo di 16 mesi in una notte di giugno 2020, poco dopo un lockdown insostenibile. Sono tornata a vivere dai miei genitori: è stato un periodo abbastanza strano: ritrovarmi in quella che era la mia stanza da ragazzina, con un neonato, confrontarmi con tutto quello che stava andando a rotoli nella mia vita. Dopo aver preso le distanze da quella situazione, mi sono resa conto di aver accettato come normali cose che non lo erano affatto. Quando sono arrivata alla stazione di polizia, volevo dichiarare di essere andata via di casa, per non essere accusata di aver rapito mia figlia. Durante la testimonianza, la polizia mi ha illustrato la gravità dei fatti. Alla fine hanno deciso di registrare la testimonianza come denuncia piuttosto che come segnalazione. Sono rimasta sbalordita nel leggere le parole "vittima di violenza domestica". Un anno prima, la nostra situazione era stata segnalata e mi era stato comunicato che dopo un'indagine gli assistenti sociali avrebbero potuto togliermi la custodia di nostra figlia. Quell'esperienza mi aveva terrorizzato: avevo paura di parlare. Dopo che la polizia ha deciso di registrare la testimonianza come denuncia, e non come segnalazione, mi sono sentita completamente sollevata dal senso di colpa. La macchina burocratica si è messa in moto, e sono stata contattata dagli assistenti sociali, dalla psicologa della stazione di polizia... Ma mi sembrava che tutto questo non riguardasse me, che stessero esagerando. Mio padre è medico, mia madre insegnante, e io sono una scrittrice: mi manca una certa dose di umiltà, e non riuscivo a considerarmi come vittima. Ho iniziato a chiedermi chi fossero le donne che morivano a causa della violenza degli uomini. Mi è capitato di leggere fatti di cronaca che parlavano di femminicidi, e cercavano attenuanti per gli aggressori o che facevano ironia sulla modalità della loro morte. Ma anche i conteggi delle associazioni. 82, 83, 120.

JD - Senza mai né un volto, né una storia?

Sì: un doppio colpo al cuore per le famiglie. Le persone che amavano tanto ridotte a un mero numero… E senza alcuna prevenzione, perché nessuno riesce a identificarsi con un fatto di cronaca o un numero. Ed è questo che consente di stereotipare le vittime. Donne deboli, in una situazione di disagio, a volte immigrate, in alloggi precari, che non parlano bene la lingua, il che rende difficile la denuncia. Sono concetti sbagliati. Ci vogliono dati statistici: una donna che muore ogni due giorni e mezzo è una realtà. Ma voglio anche raccontare la storia delle donne che ci sono dietro i numeri: la madre, la figlia, la sorella. È stato anche un modo per sentirmi meno sola, per scoprire che queste donne erano come me. Pensavo che il mio background piuttosto privilegiato e colto mi proteggesse da tutto ciò. I preconcetti mi si sono sgretolati davanti agli occhi. Non esistono donne deboli: il femminicidio non avviene nella quotidianità, ma quando una donna decide di andarsene e di non essere più il presunto oggetto di possesso del suo aggressore. Avevano tutte sporto denuncia, avevano tutte deciso di uscire dalla loro situazione. I documenti per il divorzio, una nuova relazione, o altro: la libertà è un fattore scatenante per il femminicidio.
Ho fatto un'altra scoperta: si parla sempre di violenza fisica, ma nel 60% dei casi le donne non sono mai state sfiorate prima del giorno della loro morte. La violenza psicologica, invece, è sistematica. 1 donna su 5 ne viene colpita nel corso della vita.

JD - Ecco cosa dice il test: anche se non sei vittima di violenza, puoi comunque individuare situazioni o meccanismi malsani.

I meccanismi di dominazione sono veicolati dai codici della nostra società. Ci vorranno ancora molti anni prima di smettere di educare le bambine a essere principesse in attesa di essere salvate, e i bambini a essere principi che devono salvarle. Nelle fiabe i maschi combattono i draghi, ma anche le famiglie e le suocere, e finiscono per isolare la principessa per portarla lontano. E quando la principessa diventa regina, impedisce alle altre donne di diventarlo: provano la gloria di essere scelte, senza alcuna sorellanza. Il femminicidio è un problema intimo, ma anche sociale. Ognuno di noi ha un ruolo da svolgere e preconcetti da dimenticare. Ho scoperto che la stazione di polizia più colpita dalla violenza domestica a Parigi è quella del 18° arrondissement.

JD - La dominanza è anche legata a una sensazione di potere.

Sì, ma le persone più povere sono doppiamente penalizzate: è umiliante pensare che la violenza sia causata da situazioni finanziarie difficili o da alloggi precari. Alla fine, la violenza è legata a una sola cosa: l'essere donna.

JD - O anche all'essere bambini?

Certo: infatti, ho scoperto che il 30% dei bambini che assistono a violenze diventano a loro volta autori di violenza, e il 30% diventa vittima. Ci riguarda tutti. Ieri alle donne veniva detto di andarsene al primo schiaffo. Secondo me devono andarsene alla prima parola che le fa spaventare. Lo schiaffo è già troppo tardi. Viviamo anche in una società che ha difficoltà a riabilitare le sue vittime.

JD - E che dire degli uomini violenti? Se la moglie li lascia, possono ricominciare con un'altra donna. Bisogna anche intraprendere delle azioni nei confronti gli aggressori, no?

Dietro ogni uomo violento, c'è una mamma che ha sbagliato tutto. Ho intervistato Boris Cyrulnik sulle origini della violenza. Se i bambini sono più violenti delle bambine fin da piccoli, è a causa di secoli di violenza costruttiva.

JD - Sì, anche quando siamo ben consapevoli di questi meccanismi è facile lasciarsi sfuggire frasi sbagliate, e pronunciare al bambino parole tipo "come sei forte", che probabilmente non avremmo detto se fosse stato una bambina.

Proprio così. E abbiamo preso consapevolezza di tutto ciò solo da poco. Boris Cyrulnik mi ha spiegato che esistono davvero dei bambini sadici, così come ci possono essere delle bimbe sadiche. Ma quelli a cui dobbiamo prestare attenzione sono gli altri: quelli che vengono costruiti dalla società. Anche il tabù sui disturbi mentali è importante, la maggior parte degli aggressori ha infatti subito traumi o psicosi infantili. Era il caso del mio partner di allora. Dobbiamo smetterla di dire che solo i pazzi devono andare dallo psicologo. Capire le cause non significa giustificare. Non siamo responsabili della nostra malattia, ma della mancata cura, sì.

JD - Quando hai lasciato la situazione in cui ti trovavi, la giustizia era dalla tua parte? Il tuo partner ha ammesso le violenze?

Quando me ne sono andata, il padre di mia figlia ha presentato i sintomi di uno scompenso psichiatrico. È stato ricoverato in un day hospital, con cure psichiatriche piuttosto pesanti e trattamenti che finora ha accettato. Era l'unico modo per poter eventualmente vedere sua figlia. Quando si interrompe il legame tra un bambino e un genitore, possono comparire delle carenze… Interrompere i contatti non è per forza la soluzione migliore. Mi hanno detto: "rivolgiti al tribunale della famiglia, tua figlia potrà vedere suo padre solo due volte al mese in un luogo controllato". Non ne avevo voglia, non mi andava affatto di punire mia figlia. Il legame con il padre non deve essere una stanza grigia, in presenza di un estraneo, senza alcun legame emotivo. E che influenza potrebbe avere questa decisione sulle sue future relazioni amorose? Finché non è violento con lei, non ci sono prove che tagliare i ponti sia la cosa migliore. In ogni caso, siamo sempre costrette a barcamenarci, a seguire l'istinto e a rimanere vigili. Secondo me la vera felicità sta nel saper misurare il rischio.

JD - Come ti è venuta l'idea di questo test? Mentre scrivevi il tuo libro?

Mi sono chiesta quali strumenti avessero a disposizione le donne per rendersi conto di essere sotto scacco. Un livido sul viso parla chiaro. Ma la violenza sessuale, materiale, economica, amministrativa, psicologica… Se un uomo colpisce un muro non ha picchiato la moglie, ma ha generato paura, un livido nell'anima. Non poter spendere i propri soldi, essere dipendenti. Ho letto e riletto la mia denuncia, il termine "vittima di violenza"… Ho sentito il bisogno di riappropriarmi della mia vita. Ci vogliono diverse fasi, tra cui l'accettare di essere vittima in quel dato momento. Volevo trovare un modo per raggiungere e aiutare le persone che si pongono domande su ciò che stanno vivendo, e che non riescono per forza a trovare le parole giuste. Volevo che dopo aver finito la diagnosi, avessero una procedura da seguire. Il Violenzametro mostra già una scala di violenza, ma è slegato dalla relazione con il pericolo. Ci si può trovare nel rosso e non morire, oppure nell'arancione chiaro e morire. E non esistono soluzioni del tipo: ok, sono una vittima di violenza, e ora?
Il mio strumento propone una diagnosi, scioglie i preconcetti, e poi espone cinque passi da compiere da sole, subito, per cambiare la propria narrazione.

JD - Quali sono i cinque passi?

I più importanti sono i primi tre. Il primo è osservarsi: ha funzionato con me e con le donne con cui ho lavorato. Prendere appunti, scriversi gli insulti per non dimenticarli. È facile per un uomo negarlo o usare la rabbia come scusa. O per dire che "ti ammazzo" non lo intendeva letteralmente... Ma nessuno ha bisogno di sentirselo dire. Scrivere o registrare un promemoria vocale permette di essere consapevoli di ciò che sta accadendo, di rileggerlo o riascoltarlo. Dopo tre settimane, le donne sporgono denuncia. Poi, ripararsi: lo scacco dell'uomo influisce sulla propria capacità di connettersi con le proprie emozioni e con sé stesse. Si dubita dei propri gusti e dei propri sentimenti. Bisogna riconnettere tutto ciò. Può trattarsi di fare sport e sentire il proprio corpo, di meditare, di leggere un libro o di vedere un film e di chiedersi che cosa ne pensiamo senza il parere e la conferma dell'altro. Terzo passo: prepararsi. Bisogna prepararsi per la partenza: documenti d'identità, atti di proprietà, libretto di famiglia, peluche dei bambini, un anello di famiglia che ci ricorda chi siamo. Il minimo sindacale: del contante per evitare di essere rintracciate, fare un borsone. Se sei costretta a tornare a casa perché non eri abbastanza preparata, ti esponi a dei problemi. O una ricaduta, o una lite dolorosa o la morte. Questo borsone dev'essere come un'isola deserta: il minimo indispensabile per ripartire.

JD - L'anello di famiglia, o l'oggetto simbolico che ti ricorda ci sei, serve anche farsi forza?

Sì, è anche in quest'ottica che ho immaginato il libro "125 et des milliers" (125 e mille altre). Forse è un po' dozzinale presentarlo così, ma ho l'impressione che queste 125 donne veglino su di noi come se fossero buone stelle. Alcune lettrici mi hanno confidato di essere andate a sporgere denuncia con il libro in mano. La violenza ci prosciuga e dobbiamo riempirci di qualcosa di positivo. La violenza è radicata nelle carenze narcisistiche e nella bassa autostima, che generalmente iniziano in tenera età. Quando un'amica o una collega ti dice "ma non vedi che così non va", continua ad allargare quella carenza. Dobbiamo riempire il vuoto con l'amore, per ricostruire il nostro capitale di coraggio. Dire "sei meravigliosa, mi fido di te, sei una persona straordinaria". Gli ultimi due passi sono ovviamente: andare via e sporgere denuncia.

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